La psicologa: in Italia siamo indietro, molti manager ne avrebbero bisogno
Corso di psicologia positiva nell’ateneo Usa: è più affollato di Economia.
Le materie: autostima e ottimismo.
La felicità non si può comprare. La felicità, però, si può imparare. Siamo ad Harvard, uno degli atenei più competitivi d’America — e del mondo.
Se camminando per i viali del campus il martedì e il giovedì mattina, intorno alle 11.30, doveste imbattervi in una massa indistinta di studenti che si affretta verso l’entrata del Sanders Theatre, l’atteggiamento tipico di chi deve accaparrarsi un posto in prima fila, rasserenatevi: non si tratta dei futuri «squali» dell’Mba, ma dei pupilli di Tal D. Ben-Shahar, giovanissimo (ha 35 anni) docente di Psicologia positiva.
Il suo corso è il più popolare dell’università: 855 iscritti. Fondamenti di economia, di norma in vetta alla top ten dell’affollamento, si è fermato a quota 669.
«Corsi per la felicità», così li definisce il Boston Globe, guardando con aria stupita al nuovo fenomeno che spopola tra gli universitari di stanza a Cambridge, Massachusetts. E non solo: negli ultimi anni, oltre 100 campus statunitensi hanno spalancato le loro porte alla psicologia positiva, ammessa a pieni voti—con tanto di bacio accademico — tra i programmi curricolari.
«Dovrebbero seguirlo tutti — si entusiasma Nancy Cheng, studentessa di biologia e accanita fan di Ben-Shahar —; in un ambiente frenetico e competitivo come questo, è fondamentale che le persone trovino il tempo per fermarsi e respirare ».
Ottimismo, autostima. Creatività, empatia, senso dell’umorismo.
E ancora: gratitudine, semplicità, umanità.
Sono solo alcuni dei temi affrontati in aula, e non importa se assomigliano più a un vademecum del «pensatore positivo» che ai contenuti di un seriosissimo corso harvardiano.
Come ogni blockbuster che si rispetti, il programma di Ben-Shahar ha i suoi detrattori: l’Harvard Crimson, la rivista dell’ateneo, ha bocciato le sue lezioni, troppo «viscerali» (si inizia con la meditazione, si passa per le «confessioni personali», si finisce con applausi e pacche sulle spalle) per gli standard dell’Ivy League.
«Dovrebbero seguirlo tutti — si entusiasma Nancy Cheng, studentessa di biologia e accanita fan di Ben-Shahar —; in un ambiente frenetico e competitivo come questo, è fondamentale che le persone trovino il tempo per fermarsi e respirare ».
Ottimismo, autostima. Creatività, empatia, senso dell’umorismo.
E ancora: gratitudine, semplicità, umanità.
Sono solo alcuni dei temi affrontati in aula, e non importa se assomigliano più a un vademecum del «pensatore positivo» che ai contenuti di un seriosissimo corso harvardiano.
Come ogni blockbuster che si rispetti, il programma di Ben-Shahar ha i suoi detrattori: l’Harvard Crimson, la rivista dell’ateneo, ha bocciato le sue lezioni, troppo «viscerali» (si inizia con la meditazione, si passa per le «confessioni personali», si finisce con applausi e pacche sulle spalle) per gli standard dell’Ivy League.
«Del resto la psicologia positiva, declinata all’americana, corre il rischio di sembrare semplicistica.
Ma sbaglia chi la confonde con i vari manuali di self-help».
Antonella Delle Fave insegna psicologia generale alla Statale di Milano e da dicembre prenderà il posto di Gian Franco Goldwurm come presidente della Società italiana di psicologia positiva (psicologiapositiva.it). «In Italia purtroppo le novità arrivano sempre a rilento; in Europa, poi, prevale ancora l’approccio psicoanalitico, che si occupa delle istanze represse, negative.
La psicologia positiva è il contrario: anziché mettere una pezza sui buchi, valorizza le risorse». L’attenzione, in questo caso, è tutta per le dimensioni sane dell’individuo: ad essere enfatizzato è il comportamento positivo, messo al servizio di se stessi e della collettività. La disciplina è giovane (le idee di base furono elaborate negli anni ’90 dall’americano Martin Seligman), e proprio per questo non sono ammessi sgarri: «Servono modelli robusti di lavoro, la scientificità è essenziale ».
Ma sbaglia chi la confonde con i vari manuali di self-help».
Antonella Delle Fave insegna psicologia generale alla Statale di Milano e da dicembre prenderà il posto di Gian Franco Goldwurm come presidente della Società italiana di psicologia positiva (psicologiapositiva.it). «In Italia purtroppo le novità arrivano sempre a rilento; in Europa, poi, prevale ancora l’approccio psicoanalitico, che si occupa delle istanze represse, negative.
La psicologia positiva è il contrario: anziché mettere una pezza sui buchi, valorizza le risorse». L’attenzione, in questo caso, è tutta per le dimensioni sane dell’individuo: ad essere enfatizzato è il comportamento positivo, messo al servizio di se stessi e della collettività. La disciplina è giovane (le idee di base furono elaborate negli anni ’90 dall’americano Martin Seligman), e proprio per questo non sono ammessi sgarri: «Servono modelli robusti di lavoro, la scientificità è essenziale ».
Sarà stato il rigore analitico, o forse l’attenzione alle dinamiche comportamentali, sta di fatto che in Italia i primi a essere sedotti dalla «ricerca sulla felicità» sono stati gli ultimi che un profano potrebbe immaginare: gli economisti. Seminari, convegni, programmi di ricerca. «L’interesse per le dinamiche del vivere bene è forte, soprattutto da parte dei giovani—commentaMaurizio Franzini, docente di Politica economica alla Sapienza di Roma —; alla base c’è la consapevolezza che la qualità della vita dipende sempre meno dai soldi guadagnati». Il bisogno di essere felici, riassume Antonella Delle Fave, «mette in discussione i fondamenti dell’economia tradizionale, troppo focalizzata sul benessere materiale ». Il successo tra gli studenti di Harvard, «patria» degli Mba, non stupisce la psicologa («purché non s i tratti di un’infatuazione prêt-à-porter») e l’economista: «Anzi, credo che molti dei nostri manager ne avrebbero bisogno — chiude Franzini —. Saper valorizzare i meccanismi di interazione con gli altri è importante, potrebbe essere una bella sfida da raccogliere. Per gli atenei e per le aziende».
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